Collaborare con Rolly – di Beba Schranz

Da bambina guardavo la tv dei ragazzi seduta in prima fila nella saletta dell’unico bar che a Macugnaga ci permetteva di vedere il nostro film preferito, Rin tin tin. Allora nessuno di noi aveva la televisione in casa e quel modo collettivo di vederla era un momento magico. Dai quei filmati attingevamo per i nostri giochi e alimentavamo le nostre fantasie, da lì nascevano le battaglie tra indiani e cowboy che facevamo durare fino all’imbrunire, per le quali ci inventavamo fucili e pistole fatte con pezzi di cassette della verdura o ricavate da qualche ramo particolarmente contorto. Usavamo anche scambiarci i giornaletti; su Topolino, oltre alle avventure dei protagonisti, c’era una rubrica da noi molto seguita dedicata allo sci, alle gare e ai suoi campioni, tenuta da Rolly Marchi. C’era la sua immagine con il maglione rosso con la grande T nera e gli articoli che scriveva, quindi, per noi, Rolly era uno degli eroi del giornaletto, alla stessa stregua di Topolino, Paperino, Clarabella o del Commissario Basettoni, così, quando nell’inverno del 1963 andai per la prima volta al Trofeo Topolino e lo vidi con il cappello nero a larghe tese in testa e la stella da sceriffo sul petto, mi parve di vedere il capitano Ohara, il comandante del caporale Rusty e quella mattina, su al Monte Bondone, mi sentii come proiettata dentro le pagine di un numero speciale di Topolino. Il mio pettorale era il 625, e al cancelletto di partenza invece di concentrarmi su quello che dovevo fare e fissare bene gli attacchi mi persi via con la mia fantasia, uscii dal cancelletto in tutta furia, ma la mia gara durò solo due porte, forse tre, dopo di ché l’attacco si aprì e i miei sogni di gloria si infransero miseramente. Fu allora che Rolly mi raccolse e asciugò le mie lacrime. Per fortuna il dramma si sciolse qualche ora dopo con la sfilata per le vie di Trento, che feci con i miei compagni vestita della nostra bella divisa nuova, un maglione rosso con una riga bianca e una blu e il distintivo con scritto Sci Club Macugnaga in pieno petto. Ci sentivamo belli e felici, dietro al nostro cartello sul quale spiccava un topolino di gomma che ancor oggi fa bella mostra tra i miei trofei. Qualche anno dopo, nel 1967, andai a Caspoggio per partecipare al Gran Premio Saette. Anche in quell’occasione Rolly, insieme al suo scudiero Claudio Baldessari, soprintendeva alla premiazione della gara, considerata anche Campionato italiano aspiranti. Sul podio c’eravamo io, Clotilde Fasolis e Giovanna Tiezza per le ragazze, mentre per i ragazzi c’erano Gustavo Thoeni, Nanni Mussone e Ivo Pellissier. Come sempre, se c’era Rolly c’era anche allegria e quella volta fu lui che mise in testa a tutti noi un cappello da cowboy che ci aveva fatto preparare dall’organizzazione. Sempre lo stesso anno partecipai a Courmayeur ai miei primi Campionati Italiani Assoluti ed ero alloggiata con la mia mamma in un piccolo albergo all’inizio del paese e salivo ad allenarmi al Col Checrouit, dove avremmo dovuto fare le gare di slalom. Il tempo era molto brutto, nevicava ormai ininterrottamente da alcuni giorni e lassù, all’uscita della funivia, lo incontrai, quella volta non aveva compiti organizzativi era lì in veste di giornalista per raccontare le nostre gare su «La Gazzetta dello Sport». Vedendomi mi raccomandò di stare attenta perché a causa dell’intensa nevicata in corso c’era pericolo di valanghe. Lo salutai e non detti molto peso alle sue raccomandazioni, ma proprio il giorno dopo capitò una grande disgrazia. Gigi Panei morì sulla Cresta d’Arp, travolto da una valanga insieme con il giovane maestro Tommaso Rosa di Aosta. Gigi era uno stimato maestro di sci e guida alpina di Santa Anatolia, una piccola frazione del Comune di Borgorose, in provincia di Rieti e si era trasferito in Valle d’Aosta una decina di anni prima, ma soprattutto era buon amico di Rolly che lo aveva conosciuto negli anni in cui aveva lavorato proprio lì a Courmayeur. Mi ricordo ancora il suo volto disperato il giorno dei funerali ai quali partecipammo anche tutti noi.

L’anno successivo entrai in nazionale e per qualche tempo non lo vidi più, fino al 1972. Avevo solo vent’anni e quella stagione ero riuscita a raggiungere il punteggio che il nostro direttore tecnico Jean Vuarnet aveva chiesto a tutti noi atleti per poter partecipare ai Giochi Olimpici di Sapporo. Per ragioni che tuttora non sono riuscita a comprendere la Federazione preferì mandare due uomini in più e non iscrisse le donne, così, senza una spiegazione. Il sogno della mia vita si infranse definitivamente a Grindenwald, quando mi comunicano la notizia. Il presidente del mio sci club decise allora di mandarmi comunque a vedere i Giochi, sperando che almeno mi facessero far apripista. Raggiunsi Sapporo con un misto di curiosità, turbamento e tristezza, immaginabile per una giovane atleta che sapeva di fatto tutto quello che era stato in suo potere per partecipare a quelle gare e soprattutto si sentiva all’altezza di gareggiarle e che invece si vedeva relegata al ruolo di spettatrice. Fu così che un pomeriggio, invitata al cocktail inaugurale al New Otani Hotel, vidi Rolly in compagnia di Onorato Cerne, un altro giornalista di Tutto Sport. Inizialmente il mio primo istinto  fu quello di tornarmene in albergo, non avevo voglia di raccontare le mie disavventure e poi pensavo che tutti si fossero coalizzati contro di me. Lui, invece, da lontano mi sorrideva e tra un sorriso e una stretta di mano si avvicinò a me e cominciò a rincuorarmi; per tutto il pomeriggio mi fu vicino e, con il suo modo di sdrammatizzare mi regalò quella sicurezza e quella serenità che avevo bisogno di sentirmi intorno. Tornata dalle Olimpiadi intrapresi tutta un’altra vita, lontano dalle gare e da quel mondo che mi aveva così ferita, per cui ci siamo persi di vista per molti anni, nonostante io l’avessi invitato più volte a venirmi a trovare, fino all’ottobre del 2001, quando mi telefonò per dirmi che il comune amico Vittorio Alfieri l’aveva invitato a Macugnaga dove arrivò accompagnato da Luigi Lazzaroni, quello dei biscotti.

Non lo nascondo che un po’ mi emozionai e insieme al nostro Sindaco Teresio Valsesia cercai di predisporgli un benvenuto degno della sua fama. Purtroppo il tempo non mi fu d’aiuto e per tutta la durata del suo soggiorno piovve a dirotto. Furono comunque giornate molto intense, durante le quali lo portai a conoscere i luoghi più interessanti di Macugnaga, Museo Walser, miniera aurifera e anche il piccolo cimitero dove, di fianco al tiglio secolare, c’è la lapide di Giordano Pedrotti, un giovane trentino che alla fine degli anni cinquanta morì sulla parete est del Monte Rosa. Luoghi che lui immortalò e poi raccontò in un servizio sulla sua Buona Neve. Fu proprio in quell’occasione e da quel riavvicinamento che nacque la mia collaborazione alla sua rivista, collaborazione che continua tuttora e grazie alla quale ho potuto conoscere il vero Rolly. Infatti, collaborando con lui sono subito emerse le doti professionali e imprenditoriali che fino ad allora non avevo potuto mettere a fuoco. Quelle umane già le conoscevo. Grazie a lui sono riuscita a realizzare uno dei sogni della mia vita, quello di diventare giornalista. Lavorare al suo fianco è stata un’esperienza gratificante che mi ha arricchita. Rolly non è solo lo sciupa femmine che ci si immagina dall’esterno, per me è stato soprattutto un amico prezioso pronto a darmi la sua esperienza e a spronarmi a far bene, un attento manager della sua rivista che sa come e dove rivolgersi per ottenere i risultati che desidera. Mi ha insegnato ad accettare i si e i no con la stessa disponibilità d’animo e soprattutto a non mollare mai. Un altro momento straordinario lo vivemmo insieme nel 2002 l’anno in cui il Comitato della Comunità Walser di Macugnaga gli consegnò l’insegna di San Bernardo, un’onorificenza che viene data a chi si è particolarmente distinto nelle attività a favore della montagna e delle sue genti e che nella motivazione lo definì “decatleta della vita”. Quando Rolly venne a ritirare il Premio combinai un incontro anche con i miei vecchi compagni di sci club con i quali, negli anni sessanta, avevamo fatto una fotografia di gruppo in sua compagnia durante il Trofeo Scoiattoli Mottarone a Stresa. Per l’occasione ci mettemmo in posa nella stessa posizione della foto di allora, anche se qualche posto era irrimediabilmente vuoto. Ci sono stati poi i miei primi approcci nella redazione de «La Buona Neve» dove lui mi presentava agli amici come sua “assistente” e ciò mi imbarazzava un poco. Ho iniziato così a prendere coscienza di come doveva essere approntata una rivista. Sono sempre rimasta affascinata dal suo modo deciso di agire, non aveva mai un’esitazione, con chiunque parlasse era sempre determinato, quasi un po’aggressivo. Non parliamo poi delle sue preziose agende, sempre almeno tre, dalle quali leggevo nomi che per me erano leggendari ai quali dovevo telefonare. “Chiamami Luca Cordero di Montezemolo” ed io componevo il numero e mi pareva che il telefono scottasse in mano. Appena udivo la voce della segretaria dall’altro capo del filo glielo passavo immediatamente riuscendo appena a dire che ero l’assistente del dottor Marchi e, lui prendendo il telefono, con la sua vociona diceva:“buongiorno signorina, sono Rolly Marchi, mi conosce?” e se qualche volta rispondeva negativamente, lui ribatteva “si vede che è molto giovane!”. E la sua memoria! È davvero proverbiale: è praticamente impossibile che si dimentichi qualche cosa. Le prime volte che preparavamo il menabò della rivista andavo in crisi perché lui ricordava sempre tutto quello che mi aveva chiesto di fare o di predisporre, di cui prendevo nota per non dimenticare nulla, ma se cercavo di salvarmi con qualche bugia regolarmente venivo scoperta! 

Ma uno dei momenti in cui ho potuto stimarlo per tutta la sua forza d’animo è stato quando qualche anno fa gli è capitato quel brutto incidente stradale in cui ha perso quasi completamente la vista. Mi aspettavo che un uomo abituato a muoversi tra appuntamenti di lavoro e incontri mondani come era ad uso senza mai dipendere dagli altri muovendosi in maniera totalmente autonoma, andasse in crisi. Invece no. Ha accettato la nuova condizione con una determinazione e una serenità davvero esemplari, adattandosi alla nuova situazione senza troppi drammi o lamenti. Mi accadde una volta di andare sul discorso e di affermare di quanto sfortunato fosse stato ad uscire così segnato da quell’incidente, ma Rolly rispose che non era il caso di prendersela più di tanto visto che la fortuna lo aveva aiutato molto nell’arco della sua vita. Per me è stata una grande lezione, ho imparato che bisogna saper apprezzare quanto si riceve dalla sorte per ricordarsene quando anche la sfortuna si presenta ad incassare la sua parte.

Devo a Rolly oltre a questa nostra ormai decennale collaborazione anche altre mie importanti scelte di vita. Iniziando a lavorare con lui pensavo di trasferirmi a Milano prendendomi un alloggio per essere più comoda e non fare troppi chilometri in auto, inoltre mi ero immaginata una mia nuova vita in città. Sapevo anche che a lui pesava che dovessi fare tanta strada e se ne faceva un cruccio. Invece, per fortuna, per svariati motivi la faccenda dell’alloggio si protrasse più a lungo del previsto e nel frattempo cominciai a prendere familiarità con il percorso che dovevo fare, tanto che alla fine il tragitto mi era diventato gradevole. Un momento della giornata tutto per me, durante il quale programmavo tutte le mie cose. Ho così cominciato ad apprezzare fino in fondo l’opportunità di abitare in un villaggio di montagna molto bello e relativamente vicino alla metropoli, da dove potevo godere dei vantaggi senza doverne subire i disagi. Partire all’alba come la maggior parte delle persone che dalla periferia devono portarsi al loro posto di lavoro è meno pesante se il viaggio lo puoi fare nel confort della tua auto invece che su una metropolitana o un autobus, inoltre, avere come cornice il Monte Rosa colorato dall’alba dal sole con nel cielo blu cobalto le ultime stelle splendenti, oppure poter ammirare la bellezza del Golfo Borromeo e delle sue isole, è tutta un’altra cosa che partire da una qualsiasi periferia o quartiere cittadino. Momenti per pochi fortunati, ed io sono tra loro. Un altro momento sintomatico è l’arrivo in città dove, il contrasto stridente con lo spettacolo bucolico di cui ho goduto fino a qualche ora prima, è apprezzabile. A Milano alle otto di mattina sono già tutti nevrotici, quelli in coda che imprecano contro tutti, i pedoni infreddoliti o accaldati che attendono ai semafori, i motorini che fanno lo slalom tra le code di auto, le mamme con i piccoli per mano o sui seggiolini delle loro biciclette ancora addormentati, le colf con i cani al guinzaglio e il sacchetto per i bisogni in mano che si muovono spazientite tra le aiuole dei giardini e pochi ragazzi per strada, probabilmente sono tutti accompagnati a scuola per paura di quello che potrebbe accadere se ci andassero da soli.

Ecco perché mi considero fortunata. Inoltre la mia giornata lavorativa la passo in compagnia di Rolly tra testi, computer e le foto da inserire nel numero in preparazione de «La Buona Neve», fra una telefonata e l’altra o alla ricerca di vecchie testimonianze nel suo affascinante archivio. Ogni tanto si scende a bere un caffè dall’amico Pasquale, il barista di Corso Garibaldi, ma capita anche di andare a trovare il farmacista che gli dà qualche consiglio per la pressione, o il fotografo che gli stampa le foto per la rivista e per il quale è davvero un buon cliente! O di fare una capatina nella pasticceria dei signori Ranieri che ci coccolano con qualche dolcetto. Insomma, con Rolly vivere la città è tutta un’altra cosa, lui è riuscito a fare di Corso Garibaldi, via Palermo, via Statuto, Largo Treves, Piazza San Marco, Largo La Foppa un piccolo villaggio dove conosce tutti e con tutti ha un rapporto di simpatia e amicizia come soltanto lui sa avere. Anche all’ufficio postale riesce a scambiare battute e sorrisi. Grazie a lui ho potuto godere della “sua” città e della “mia” montagna contemporaneamente. Concludendo mi pare che Rolly Marchi sia uno degli esperimenti più riusciti di Aubrey de Grey, gerontologo di Cambridge e capofila di un gruppo di studiosi che sostengono la possibilità di curare l’invecchiamento, che ha dichiarato: “Quando si comprenderà, dagli esperimenti sul topo, che l’immortalità sarà presto raggiungibile ci sarà una confusione totale. Smetterò di essere solo io a dire queste cose: tutti converranno che una seria estensione della vita in salute è imminente. Sarà un’autentica guerra all’invecchiamento”.

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