Weekend in Antelao 
Il Capitano Gobetti inforcò gli occhialini cerchiati d’oro e finse di consultare i tre fascicoli personali che aveva davanti a sé. In realtà li aveva già studiati accuratamente nei giorni precedenti. Era uno degli inverni più rigidi del secolo scorso, in quei lontani anni Sessanta, e il Cadore era letteralmente sepolto sotto una spessa coltre di neve. I tre Sergenti AUC, freschi di nomina, stavano impalati di fronte alla scrivania del Capitano, nell’ufficio della Compagnia Comando e Servizi del Battaglione Pieve di Cadore, cui erano stati assegnati. I loro “baffi” dorati, nuovi di zecca, appena applicati alle uniformi, sembravano brillare di luce propria.
Gobetti tolse gli occhiali, si lisciò la barba, e finalmente rivolse loro la parola, in tono gentile e con forte accento piemontese:
«State pure comodi, qui non siamo ad Aosta. Risalendo la valle del Piave avete visto Longarone, e su, in alto, la diga del Vajont. Quattro anni fa, subito dopo il disastro, questo reparto è stato fra i primi a intervenire, con grande abnegazione. Si è guadagnato la stima e il rispetto di tutti. Voi dovrete dimostrare di essere all’altezza dei vostri veci. Cercate di mettere a frutto le belle teorie che avete imparato alla SMA. Il Cadore è una terra splendida e amichevole. Noi Alpini godiamo di grande affetto. Però, quando sarete in giro per le montagne, tenete sempre gli occhi aperti: sappiamo tutti cosa è successo pochi mesi fa, su nel Comelico».
Gobetti si riferiva all’attentato di Cima Vallona[1].
«Ci sono domande?» proseguì.
Nessuno fiatò.
«Bene, allora diamoci da fare» riprese. «Chi di voi tre sa sciare?»
Ci fu un breve silenzio. I tre neo-sergenti si scambiarono rapide occhiate, finché uno di loro si fece coraggio e rispose:
«Io, signor Capitano. Sergente Allievo Ufficiale Fiorenzo».
«Bene, Fiorenzo. So che hai studiato Trasmissioni, alla SMA, ma qui sarai il comandante del plotone esploratori. Il Comando non mi ha inviato l’ufficiale che avevo chiesto, e la posizione è vacante. Come primo incarico dirigerai il corso sciatori principianti. Inizia domani e durerà due settimane. Ecco il piano delle lezioni. Comincia a studiarlo e passa subito in magazzino per l’equipaggiamento. Buon lavoro».
Fuori dall’ufficio, mentre cercava di riprendersi dallo choc, Fiorenzo fu avvicinato da un alpino così grande e grosso che, se l’avessero dipinto di rosso, sarebbe stato scambiato per una cabina telefonica londinese:
«El xe lu el serpente ‘splorador?»
Il tono, non propriamente formale, era però cordiale e amichevole.
«Sì, sono io. Mi chiamo Fiorenzo, piacere».
«Piacere, mi son el caporalmajor Perathoner Giuseppe, ma li me ciama tuti Bepin. Andemo, che ghe dago una man».
Fu così che Fiorenzo, inaspettatamente, entrò a far parte degli Esploratori del Cadore.
I suoi amici di Milano non ci avrebbero creduto.
In magazzino, sotto l’esperta supervisione di Bepin, Fiorenzo si dotò degli attrezzi del mestiere: sci di lunghezza standard 180 cm – mentre a quei tempi si usavano 205-210 cm – con attacchi Kandahar; pelli di foca; ciaspole; ramponi e piccozza; tuta bianca – che delusione: sembrava un lenzuolo riadattato! – occhiali da neve con lenti di celluloide ed elastico; pila frontale. Era pronto per iniziare, il mattino successivo, l’atteso corso di sci per principianti.
Fiorenzo, formalmente titolare del corso, era coadiuvato da alcuni aiuto-istruttori del suo plotone, tutti maestri di sci a Cortina e dintorni. Naturalmente i veri esperti della materia erano loro. C’era poi el Bepin, sempre pronto a dare una mano.
Perathoner, come ben presto scoprì Fiorenzo, era laureato e poliglotta. Usava il dialetto veneto per vezzo e, forse, per prendere in giro i “foresti”. Aveva preferito il servizio militare semplice per motivi professionali. «Per star visin a la botega», come diceva lui.
Le due settimane di corso furono, per Fiorenzo e probabilmente per tutti, un vero e proprio divertimento. Il programma quotidiano prevedeva la discesa il mattino e lo sci-alpinismo il pomeriggio. Le lezioni del mattino si tenevano proprio accanto alla caserma, sul campetto dotato di una facile pista e di uno skilift, al quale gli alpini avevano libero accesso. Certo, il campo-scuola non era il Canalone del Groppera, e nemmeno la Gran Risa, ma era comunque piacevole e divertente. Nel pomeriggio, il gruppo si trasferiva nei pressi della magica Cibiana, per esercitarsi salendo – con, e senza, pelli di foca – e scendendo fuori pista in quelle splendide pinete. La giornata si concludeva, inevitabilmente, con una discesa a rotta di collo nella zona dei trampolini. Calzata a rovescio la “stupida” – il berretto norvegese – Fiorenzo e i suoi aiuto-istruttori si lanciavano dritti giù per un breve e ripidissimo pendio, che terminava con un tratto piano, in mezzo ai pini. Nel repentino passaggio dal ripido al piano, i temerari ricevevano una fortissima spinta all’indietro, che richiedeva il massimo sforzo di gambe per essere contrastata. Un’eventuale “seduta” sulle code avrebbe comportato la perdita di controllo direzionale, in neve fresca e in mezzo agli alberi. Con conseguenze facilmente prevedibili.
Al termine del corso, tutti gli allievi – parte di una compagnia fucilieri – avevano acquisito una buona preparazione di base, sufficiente a cavarsela in quasi tutte le situazioni. Come prova di fine corso, il Comando organizzò un raid di due giorni al rifugio Antelao, con partenza il sabato pomeriggio e salita con le pelli di foca. Il gruppo era accompagnato dal gestore del rifugio, chiuso d’inverno. Ciascuno portava, oltre all’equipaggiamento individuale, una quota di generi alimentari per la lauta cena in programma. La distribuzione dei carichi avvenne in modo imparziale, a giudizio insindacabile del gestore. Fiorenzo fu abbastanza fortunato. Si sobbarcò un sacchetto di farina da polenta e un bottiglione di vino clinto. Il rifugio era letteralmente sommerso dalla neve. Dopo averlo reso agibile e riscaldato, tutti si misero a disposizione del gestore e, sotto la sua supervisione, allestirono un cenone degno di un matrimonio. Fu una serata davvero piacevole.
La domenica mattina fu interamente dedicata alla discesa. Si trattava di percorrere una lunghissima mulattiera, innevata e non battuta, che dal rifugio conduceva alla statale per Cortina, nei pressi di San Vito di Cadore. La discesa, di per sé non difficile, data la modesta pendenza, era complicata dai due metri di neve fresca, e mise a dura prova la scarsa esperienza dei neo-sciatori: le cadute, con clamorose imbiancature e colossali risate, non si contarono.
In tarda mattinata, al previsto collegamento radio con la caserma, Fiorenzo venne informato che il Colonnello Comandante li avrebbe attesi all’arrivo, sul sagrato di una chiesetta soprastante la strada: il pulpito ideale per un breve discorso ai coraggiosi. Fiorenzo, che sarebbe sceso per primo in testa agli esploratori, avvertì il Comandante di Compagnia, sciatore principiante egli stesso – e ricoperto di neve come gli altri – e tutti fecero il possibile per presentarsi dignitosamente al cospetto dell’alto ufficiale.
Poco prima dell’arrivo, defilato dietro un costone, il reparto si ricompattò. Vennero ripulite e risistemate le uniformi, calzate le “stupide” in modo regolamentare e appesi ai cinturoni i cordini da valanga, bene avvolti. Tutto era pronto per il gran finale. Il Colonnello era già appostato in attesa.
Fiorenzo imboccò l’ultimo tratto di mulattiera seguito dai fedeli esploratori. Dietro di loro, il Capitano e gli allievi. La pista era piuttosto stretta e rendeva difficili le manovre. Per rallentare, Fiorenzo aprì lo spazzaneve e, giunto nei pressi del Colonnello, ordinò il regolamentare saluto:
«Attenti a – Sinist!»
Nello stesso istante, incappò in una placca di ghiaccio, incrociò le punte degli sci, fu sbilanciato in avanti, e perse il berretto. Nel disperato tentativo di non cadere, si buttò all’indietro e, un istante prima di un’indecorosa ‘seduta sulle code’, si sentì afferrare e sollevare di peso da un paio di provvidenziali braccia. Erano quelle di Bepin che, seguendolo da vicino, riuscì a rimediare almeno parzialmente alla figuraccia. Il gruppetto di testa si ricompose e, ben allineato sul pianoro proprio sotto la chiesetta, attese l’arrivo del reparto. Il Colonnello rivolse un breve saluto, salì sulla Campagnola e fece rotta verso Cortina, dove l’attendeva uno splendido pomeriggio di sci. Il gruppo, invece, si caricò gli sci in spalla e, in fila ordinata, si incamminò verso la caserma.
«Per poco non cadevo» ebbe il coraggio di dire Fiorenzo.
«Eh già» rispose Bepin. «Succede. Comunque, per essere un milanese, te la sei cavata abbastanza bene».
Fu un bellissimo complimento.
[1] La strage di Cima Vallona (San Nicolò di Comelico – BL) fu un attentato perpetrato il 25 giugno 1967, con trappole esplosive, da membri della Befreiungsausschuss Südtirol, organizzazione terroristica per l’autodeterminazione dell’Alto Adige. Vi morirono sul colpo tre militari italiani e un quarto rimase ferito. La pattuglia stava indagando sull’abbattimento di un traliccio dell’alta tensione, avvenuto in quegli stessi luoghi la notte precedente.