Luca Steffenoni – Un venerdì da leoni – 10.05.16

UN VENERDI’ DA LEONI

 

Mi ero svegliato presto. Prestissimo. Ancor prima che la sveglia, puntata sulle cinque, iniziasse a trillare. Forse non avevo nemmeno dormito, tanta l’eccitazione per quella partenza. Avevo evitato ogni rumore per non svegliare i miei, mi ero lavato alla bene meglio, infilato la ruvida calza maglia in misto lana o chissà che accidente, i jeans, una t-shirt con la linguaccia dei Rolling Stones a contatto pelle, poi una vecchia maglia spacciata dall’etichetta per “adatta alle alte quote”, il fido maglione Silvy Tricot bianco e blu. Mancava solo il piumino Moncler comprato usato da un compagno di classe e i peloni che mi facevano assomigliare a uno zampognaro della Sila, ma che a me apparivano il massimo dell’eleganza. Presa la sacca degli sci contenente i fidi Rossignol St con attacco Look e l’altra con scarponi e tutto il resto.

Guanti, cappellino, occhiali. C’era tutto. Una procedura consolidata. Appuntamento in piazza Castello  dove allora partivano i bus per le località alpine.

L’avevo fatto tante volte. Il tram sarebbe comparso nella nebbia, perché allora a Milano c’era ancora, specie all’alba, e sferragliando mi avrebbe portato davanti alla grande fontana. Ma questa volta era diverso. Niente sci club, niente adulti tra i piedi, nessuna gita organizzata, solo la libertà dei diciassette anni.

Si prospettava un ponte dell’Immacolata storico. Del resto eravamo al culmine dei trasgressivi anni ’70 e non avevo intenzione di perdere nemmeno un minuto di quella baraonda.

Preparare la gita non era stata impresa facile. Roberto, il mio fido compagno di tante avventure, come sempre si era mostrato  entusiasta. “Figata!” aveva commentato alla prospettiva di andare da soli a Cervinia.

Roby era quel tipo di ragazzo che se gli avessero proposto la traversata del Polo, mezzora dopo l’avresti trovato sotto casa con la slitta e i cani. Sembrava non avesse genitori da tanto era libero. Una testa riccia, occhiali da secchione, quaranta chili per un metro e sessanta scarsi e tanta energia da vendere. Il problema non era lui. Il problema era il proprietario della villa nella quale ci saremmo voluti posizionare. Lo chiameremo Davide perché, dopo essersi applicato con metodo a distruggere l’ex azienda paterna della quale oggi porta solo il cognome, forse non gradirebbe i nostri ricordi di gioventù.

Davide era un compagno di classe e un amico, per quanto quell’amicizia paresse incomprensibile ai più. Davide era schifosamente ricco di famiglia, lo dico con tutta l’invidia del caso, e aveva l’aspetto di un bagnino, hippie californiano. L’idolo di tutte le liceali, almeno fino a quando non ci parlavano assieme. Aveva tutto per essere felice e invece niente, era ciò che oggi si definirebbe un adolescente problematico, afflitto dal mal di vivere. In cura fin da piccolo presso uno stimato psicanalista che, dopo averlo definito “sociopatico” non era andato oltre e non sembrava ottenere i risultati sperati. Era maleducato, presuntuoso, viziato, egocentrico, indolente e perennemente annoiato. Uno al quale non fregava niente di nessuno. L’unico suo interesse era farsi le canne, il che può essere anche considerata un’attività degna di nota, ma difficilmente ci si costruisce sopra un’intera esistenza.

Seguendo la moda del periodo si definiva un tipo contorto, “in para”, caratteristica che sottintendeva, mediante un uso fin troppo disinvolto del termine, la paranoia resa più celebre dal disco dei Black Sabbath che dai trattati medici. Ciò aumentava molto il suo fascino presso le suddette giovani donne sempre votate al sacrificio, ma non scalfiva il giudizio popolare del liceo Leonardo da Vinci che, insensibile alle diagnosi scientifiche, lo bollava come “una gran testa di cazzo”.

Per farla breve e gustarsi tre giorni di sci, birra e Rock’n Roll, tutte cose che a quell’età potevano benissimo convivere, bisognava avere la disponibilità del suo appartamento. Le ragazze, poi, rappresentavano un ottimo motivo per coinvolgere Davide, perché Roberto ed io sapevamo che tre coetanee di notevole aspetto e voglia di divertirsi si erano già posizionate senza genitori presso il Residence Cielo Alto. Presumibilmente attratte dalla sua presenza, non certo dalla nostra.

Mentre il tram procedeva nel buio della notte, già fantasticavo su improbabili orge. Una ragazza era Elena, bellezza acerba e irraggiungibile. Alta, bionda, occhi verdi…nemmeno pensarci, quella sarebbe caduta ai piedi di Davide e manco mi avrebbe rivolto la parola. Già vedevo la scena come in un film di Woody Allen “pussa via, sgorbio”. Meglio concentrarsi su Marta che tutto sommato non era niente male e mi aveva già fatto presagire un qualche interesse. Di accoppiare Silvia con Roberto nessuna speranza, purtroppo con le ragazze era uno sfigato cosmico.

Preso dai miei sogni, quasi perdevo la fermata del Castello.

Roberto era già li, a fianco del pullman diretto a Cervinia. Di Davide nemmeno l’ombra.

“Tra cinque minuti si parte, caricate i bagagli!” gridò l’autista.

“Lo sapevo, c’era da giurarci, quello stronzo starà dormendo…o forse l’ha fatto apposta, un bello scherzo del cazzo, noi qui vestiti da sci e lui a casa sotto le coperte”. Iniziavo a innervosirmi.

“Due minuti e si parte!”.

L’autista non sembrava il tipo disposto ad ascoltare le mie lamentele: “Uèh bel ricciolino sùn mica qui a fare il tassista per te e il tuo amis” aveva detto, sbattendo in malo modo la porta.

L’odore del gas di scarico mi colpì come un fungo atomico. La carogna aveva messo in moto, inserito la freccia e stava inesorabilmente partendo. Portandosi appresso le mie sciate, i miei sogni e tutto il resto.

“Cazzo, cazzo, cazzo…io lo ammazzo quello stronzo”. Non avevo finito la frase che lo stronzo in questione si palesò in mezzo agli altri autobus ancora parcheggiati, con l’aria più rilassata del mondo e un sacchetto da panettiere in mano.

“Ragazzi, vi ho portato le brioches calde”.

“Dalle a tua sorella le brioches… il pullman è partito e noi qui ad aspettarti come degli imbecilli…ma io dico, una volta, una fottutissima volta che devi arrivare puntuale…”.

“Ah è partito…accidenti che peccato… e adesso cosa facciamo? Prendiamo il treno?” disse serafico Davide.

“Niente da fare, ho già chiesto, ad Aosta non c’è più coincidenza con l’autobus, vanno solo a Pont Saint Martin e poi li che facciamo?” dissi.

“Autostop?” propose Roberto.

“Sì bravo, con sacche da sci, borse e questo sconvoltone appresso, voglio vedere chi ci prende…fanculo, fanculo, fanculo” mi disperai.

Roberto, inaspettatamente, prese il comando: “Niente panico, ragazzi, abbiamo detto Cervinia e Cervinia sarà, dovessimo andarci a piedi… ho un piano, ma prima devo fare una telefonata, qualcuno ha un gettone?”.

Ce l’avevo.

“Okey, ora fate una bella cosa, state qui fermi a curare sci e borse e aspettatemi, vado a fare una telefonata e che Dio ce la mandi buona”. Roberto sparì. Davide per non sbagliare iniziò a rollarsi una canna. Io ero imbestialito.

I piani di Roberto, famosi quelli per copiare durante i compiti in classe, avevano parecchi punti deboli. Ciò spiega perché fosse stato bocciato nonché la mia assoluta sfiducia verso le sue idee balzane.

Passò la mezz’ora più lunga della mia vita con Davide che tentava di fare la pace e la prospettiva di ripresentarsi a casa con le pive nel sacco. Un clacson sputacchiante mi riportò alla realtà. Una vecchia 500 blu di quarta mano accostò il marciapiede. Alla giuda il fratello di Roberto, del quale ho sempre ignorato il nome e in piedi sul sedile, la testa fuori dalla capote di tela, quest’ultimo con un sorriso raggiante. “Ciurma, abbiamo la macchina!”.

“Bella idea, grazie, poi mi spieghi come ci stiamo in quattro, con borse e sci in una 500, con Davide che è alto almeno un metro e ottanta… sembra la barzelletta dei quattro elefanti sulla…” dissi sconsolato.

“Non siete in quattro, siete in tre, io vi ho solo portato la macchina presa in prestito da mamma…che tra parentesi non sa nulla e nulla deve sapere, poi vi arrangiate da soli” disse il guidatore.

“Dai non perdiamo tempo, gli sci li mettiamo così”. Roberto prese le sacche e le infilò dalla capote. “Anche se restano fuori, chissenefrega…le borse le leghiamo sul tetto, tenendole con questa corda…se facciamo un buon lavoro non cade niente e blocchiamo pure l’aria fredda…”.

Sembrava invasato.

Diedi immediatamente il mio contributo disfattista: “Vorrei farvi notare che il più vecchio di noi, che poi sono io, ha da poco compiuto diciassette anni e non mi risulta che la patente la diano per simpatia… chi cazzo guida?”.

I due amici si voltarono all’unisono. “Tu”.

“Io non so guidare”.

“Ma se vai sempre a guidare con tuo padre…che cavolo ci vuole? Frizione, acceleratore, butti dentro una marcia… a proposito, quante marce ha la 500?” disse Davide.

“Aver guidato dieci minuti nel parcheggio di San Siro con a fianco mio padre, non significa saper guidare”.

Roberto mi prese per un braccio portandomi al limite di un’aiuola, poi si mise una mano tesa sulla fronte come a proteggersi dalla luce e scrutare l’orizzonte.

“Vedo laggiù piste imbiancate, neve farinosa, gobbe che chiamano…Lucaaaaa, Lucaaaa, ti aspettiamo, vedo il Furggen e il Ventina che urlano…manchi solo tuuuuu. A guardare proprio bene vedo anche tre belle gnocche che ci aspettano”. Ammetto che sapeva essere convincente.

“Siamo in tre con una macchina a pezzi rubat…va beh, presa a prestito, senza portapacchi, senza portasci, senza uno straccio di patente, senza documenti, senza catene e ovviamente senza riscaldamento… è una grossa cazzata…” dissi.

Poi li guardai, persino Davide aveva l’aria di un cane bastonato. Li stavo deludendo.

“Ok, è una cazzata apocalittica quindi…facciamola” dissi.

“Siiii!!!!!”. L’entusiasmo aveva contagiato perfino Davide solitamente freddo e menefreghista.

“Un momento” disse Roberto “prima l’urlo”.

Mettemmo le nostre mani una sopra l’altra: “One, two, three… Rock’n Roll!!!!”. Era il nostro grido di battaglia, imparato a un concerto dei Led Zeppelin e urlato a squarciagola nei corridoi della scuola.

Con una grattata spaventosa la macchina si mise in movimento. Roberto infilò nel mangiacassette portatile un nastro dei Sex Pistols e per tre minuti ci sentimmo fighissimi. Al quarto eravamo già fermi al centro della piazza senza che la macchina si sognasse di riaccendersi.

Quel che è peggio, la 500, che con quelle lunghe aste infilate in verticale assomigliava alle vetture delle giostre, bloccava l’auto di dietro. Dopo una lunga serie di epiteti in stretto dialetto milanese, ricevetti dal suo guidatore la più veloce lezione sull’uso della doppietta che la storia ricordi, sufficiente a ripartire senza trovarmi la leva del cambio in mano.

In piazza Firenze volò via la prima borsa, costringendoci a una sosta e a un riposizionamento del bagaglio sul tetto. Alla fine di viale Certosa ci affiancò una Giulia verde militare della Celere. Attimi di paura. I due poliziotti ci squadrarono con un certo disgusto, poi dopo aver parlottato tra loro devono aver deciso che tre imbecilli di quella risma non potevano costituire una banda armata e con una sgommata degna dell’ispettore Callaghan avevano proseguito sulla loro strada. Il cuore poteva ricominciare a battere.

Entrati in autostrada tutto diventò più semplice. Niente più marce da ingranare, solo il piccolo acceleratore da tenere pigiato.

“God save the Queen…. la la la la… no future, no future for you”.

La Sambuca portata da Roberto in una fiaschetta appartenuta al nonno alpino, aiutava a sopportare il freddo che si infilava dalla capote parzialmente aperta. L’umore era tornato ai massimi.

Sosta al Pavesini, come si chiamava allora, per scaldarsi un po’ e fare benzina e poi via. Intorno a Santhià ero già certo che la scuola per acquisire la patente fosse un’inutile perdita di tempo.

Le cose si fecero più difficili quando la strada iniziò ad inerpicarsi verso la montagna, ma se si esclude un perfetto testacoda di trecentosessanta gradi sul fondo nevoso, che riportò senza alcuno sforzo la macchina perfettamente in linea con l’obiettivo della gita, tutto sembrava andare per il meglio e finalmente il Cervino comparve all’orizzonte. Il più era fatto ora si trattava solo di ringraziare Dio che, evidentemente quel giorno, aveva preso a cuore la sorte degli incoscienti.

Era circa mezzogiorno, giusto in tempo per lanciarsi alla funivia e muniti di pomeridiano, godersi l’inizio del weekend.

Davide non riuscì a smentire la sua fama di guastafeste. Infilati gli scarponi si mise diligentemente in coda alla biglietteria per poi mollare tutto ritenendosi troppo stanco a causa della levataccia dirigendosi, dunque, verso il divano di casa. Io e Roberto immaginammo che volesse solo accelerare l’incontro con la bella Elena e ce ne facemmo una ragione. Per parte mia nemmeno Miss Universo sarebbe venuta prima di una bella sciata. Filosofia che è tutt’oggi uno dei punti fermi della mia esistenza.

La giornata era nuvolosa. Bisognava affrettarsi, come tutti sanno il sole ai primi di dicembre cala in fretta.

Arrivati a Plan Maison feci un grave errore. Nell’ansia di sfoggiare un Kway nuovo, acquistato per l’occasione, munito di una bellissima chiusura a lampo con i colori francesi, mollai il vecchio piumino malandato sull’attaccapanni del rifugio e lo indossai. Perfettamente intonato alle ghette Invicta a righe bianche e blu. Una spalmata di Labissan sulle labbra. Niente cappellino, i folti capelli bastavano e avanzavano. Ok, adesso ero pronto per affrontare la salita.

Sinceramente non ricordo gli aspetti sciistici della giornata. Di sicuro ci lanciammo sul Furggen, allora una delle discese più ambite di tutto il comprensorio.  Verso le 15.30 la vecchia funivia che si arrampicava sotto il Cervino venne chiusa a causa delle consuete raffiche di vento che nella località valdostana sono la regola. Tornammo quindi, per le ultime discese, verso il Plateu.

La regola era sempre stata quella di terminare la giornata, attendendo sulla cima che la pista del Ventina si svuotasse per poi, a impianti chiusi, affrontare una direttissima in discesa libera. Roberto non era un grande sciatore e dunque per questa volta niente sfida a chi fosse arrivato prima.

Nel quarto d’ora necessario alla salita in funivia, le raffiche di vento aumentarono decisamente, cosa che costrinse il manovratore a fermare la cabina oscillante per un lunghissimo periodo. Ne approfittai per chiacchierare con un giovane maestro di sci che affrontava l’ultima discesa della giornata con un po’ di bambini al seguito. Tutti sembravano divertirsi un mondo e accompagnavano le oscillazioni con dei lunghi “ohhhh” e tante risate. Io che non sono mai stato un fifone, ma sono stato educato da papà e nonno ad un certo rispetto per la montagna, notai uno sguardo preoccupato del manovratore che attendeva il drinn del telefono con una certa trepidazione. Si intuiva una tensione che non mi piaceva per nulla. Forse da ragazzini si è più sensibili…boh, comunque sia io, il maestro e il conducente sembravamo gli unici ad accorgerci che fuori dai vetri non si vedeva più nulla. Piano, piano, pianissimo, la funivia arrivò in cima. Erano già quasi le cinque. Naturalmente l’addetto alle funivie ci avvertì che bisognava scendere con gli sci perché l’impianto si sarebbe fermato. Poi sparì.

Roberto e io ritenemmo che fosse il caso di sbrigarsi ad affrontare la discesa e fummo i primi ad uscire dal tunnel che dava sulla pista. Lo scenario era totalmente cambiato. Un vento gelido spezzava la faccia ed era quasi diventato buio. Tornai un attimo dentro. Chiusi bene la stupida giacca a vento leggerissima, mi tirai su il cappuccio, poi presi a prestito una lunga sciarpa di lana che era stata abbandonata da qualche sciatore su di una panchetta e me la arrotolai sul capo come fanno i Tuareg. Il maestro di sci, gentilissimo, mi diede una maschera Baruffaldi, perché ne aveva due in tasca.

Aprimmo la porta della stazione a monte e mentre i viaggiatori dell’intera cabina, si attardavano, affrontammo la prima diagonale che porta a valle.

Si faceva una gran fatica a scendere anche nella massima pendenza. Facemmo seicento, settecento metri, quando avvenne qualcosa che non dimenticherò mai e che in cinquantanni di sci mai mi è ricapitata. Un fronte bianco, simile a una slavina, misto di neve, ghiaccio e perfino qualche pietra ci colpì in pieno. Una sorta di onda violentissima che aveva la particolarità di salire dal basso verso l’alto. Nei giorni successivi si dirà che una tromba d’aria, fenomeno rarissimo in alta montagna, si era scagliata sul ghiacciaio e aveva colpito il crinale poco più in basso del punto nel quale ci trovavamo. Ci saranno polemiche, accuse agli svizzeri che non avrebbero avvertito in tempo i colleghi italiani. Storie di ripicche e di sgarbi tra contendenti nella gestione degli impianti di Plateu. Tutto ciò non si dimostrava di alcun aiuto, mentre sollevato a qualche centimetro da terra, mi ritrovai in piena bufera, respinto a dieci, quindici metri da dove mi trovavo prima. Non si vedeva più nulla e soprattutto era quasi impossibile respirare controvento. Iniziai a pensare che il Dio della montagna, meno benevolo di quello degli automobilisti, mi presentasse il conto.

Vedevo solo Roberto. Probabilmente, se la nebbia polverosa, si fosse diradata, mi sarei accorto che almeno una quarantina di persone, nelle poche centinaia di metri che ci dividevano dall’arrivo della funivia, erano nella stessa situazione. Invece nulla. Nemmeno si capiva più dove fosse l’alto e il basso. Passato qualche minuto dal nulla comparve il maestro, insieme ad un gruppetto di adulti. Era pallido, spaventato. A segni, perché parlare con quel vento che non accennava a diminuire, era quasi impossibile, ci fece capire che si era perso i ragazzini al seguito.

Non mi ricordo a chi venne l’idea, ma decidemmo di fare una catena, tenendoci per mano allo scopo di chiudere la pista ed evitare che altre persone ci sfilassero in quello che ormai era un muro bianco. Quando il primo adulto si tolse gli sci, cercando di infilarlo nella neve, ci fu un’altra amara scoperta. Il vento era talmente forte che lo sci volò via, perso nella bufera.

Fortunatamente in quegli anni molti portavano ancora i laccetti di sicurezza e le cinghie per tenere uniti gli sci. Costruimmo una corda legando tutti gli sci assieme, cosicché fossero più pesanti e l’operazione dette i frutti sperati. Poi, accovacciati a terra, la catena umana ha iniziato a muoversi verso i bordi della pista. In effetti qualcuno arrivava. Volti ghiacciati uscivano dalla nebbia e ci comparivano davanti. Finalmente uno dietro l’altro arrivarono anche i bambini. Tutti si muovevano a ondate, approfittando degli attimi nei quali il vento calava quel tanto da permettere di avanzare qualche metro. Di scendere oltre, lungo la pista, nemmeno a pensarci.

Alla fine contammo circa una cinquantina di persone, bloccate come noi a 3000 metri in mezzo a una bufera di portata epica e ritenemmo che il resto dei componenti della funivia, fosse rimasto saggiamente, nella stazione d’arrivo.

Ma le sorprese non erano ancora finite. Ho già detto di come Roberto, diciassettenne col fisico di un quattordicenne, non fosse proprio un Rambo. Eppure, inspiegabilmente, mentre omoni di quarantanni iniziavano a piagnucolare e a disperarsi per il freddo sempre più pungente, mostrò doti inaspettate. Gli venne una nuova idea.

“Scaviamo con le mani una grande buca e ci mettiamo i bambini dentro, poi attorno un cerchio con le donne, e noi stiamo attorno…più stiamo vicini e più ci scaldiamo…nel frattempo arriveranno i soccorsi”. Il piano fu ben accolto da tutti, primo fra questi il maestro che involontariamente fungeva da autorità di quello che sarà destinato a rimanere a lungo, un vero gruppo di sopravvivenza.

Lavorando con i bastoncini e con i guanti, una specie di buca, non molto profonda per la verità a causa del ghiaccio sottostante, si riuscì a fare. I bambini erano i più protetti, ma anche quelli che meglio sopportavano i rigori del freddo. Ridevano ai racconti scolastici di Roberto che si era improvvisato clown e animatore dei più giovani. Il problema erano alcuni adulti. Abituati a qualcuno che si prenda la responsabilità e le colpe, ossessionavano con richieste e proteste il povero maestro. Con l’arrivo del buio la situazione precipitò.

Credo che non esista buio più buio di quello che si può avere in alta montagna, in mezzo a una tormenta, senza una stella, una luna, una cazzo di pila, o un’accendino. In quanto ai telefonini, sfortunatamente, nessuno aveva ancora pensato di inventarli.

Erano ormai le venti, eravamo in quella situazione da tre ore, con il rischio di rimanerci per tutta notte. La tensione era ai massimi. Un cretino si tolse un guanto che naturalmente volò via e dovette rimanere con la mano in tasca. Altri si convinsero che fosse meglio tentare di scendere a valle con gli sci, ma non riuscirono nemmeno a infilare gli attacchi. Un gruppetto decise che nel buio fosse possibile fare seicento metri di pista a piedi, trovare una scalinata ghiacciata che portava a un piccolo rifugio abbandonato, sfondare la porta e trovare riparo. Il risultato, dopo dieci metri, fu una caduta collettiva, con un secondo cretino che, si scoprirà più tardi, ci rimetterà un ginocchio.

L’adrenalina e l’incoscienza non mi faceva sentire più di tanto il freddo, ma la situazione non accennava a migliorare. Verso le 21.30 tutti ebbero la sensazione di vedere un piccolo bagliore provenire dal cielo. “Ecco, sono i soccorsi…un elicottero”. L’elicottero, si saprà dopo, non era stata una suggestione collettiva, ma era riuscito solo ad avvistare il gruppo, non certo a scendere, causa raffiche a più di cento all’ora.

La logica diceva che tutto il paese si sarebbe allarmato per la nostra assenza, ma le ore passavano inutilmente.

Finalmente, saranno state le undici di notte, il tempo intercorso tra una raffica e l’altra, iniziò ad allungarsi. Poco dopo, nel buoi più totale, si intravide un po’ di chiaro. Era fatta. Un gatto delle nevi stava faticosamente risalendo il pendio sotto di noi.

In teoria l’avventura sarebbe finita li. In realtà feci in tempo a vedere scene, che francamente mi sarei risparmiato e mi fanno tuttora dubitare della natura umana. Ci fu un assalto degno di quello all’ultima scialuppa di salvataggio del Titanic. Uomini grandi e grossi con piumini da cinquecentomila lire che li avevano sicuramente ben protetti che calpestavano bambini per conquistare un posto sul cassone esterno, gente che urlava con il guidatore perché i soccorsi sarebbero arrivati troppo tardi, altri che minacciavano azioni legali perché il poveretto nella bufera non aveva potuto evitare di fare una bella marmellata dei pochi sci che non erano già volati via. Dopo un po’ arrivò un secondo gatto, ma il posto era ancora troppo poco. I nostri sci legati come un salame erano ancora disponibili, per cui assieme al maestro decidemmo di scendere a spazzaneve protetti dal gatto e aiutati da una corda.

Alla fine arrivammo a Plan Maison e da qui in paese. Sulla nostra avventura scorrevano i titoli di coda. E proprio la fine di un film catastrofico, appariva Cervinia. Qualche cosa come la scena finale di Airport 75 o dell’Inferno di Cristallo. Elicotteri, ambulanze, alpini soccorritori, maestri di sci, telecamere della televisione e perfino Mike Bongiorno che temeva per alcuni amici.

Il bilancio medico, tra principi di assideramento, una frattura, congelamenti a mani e piedi, stando a quello che scrissero i giornali, sarà abbastanza grave.

Il maestro ci diede una pacca sulla spalla e ci ringraziò. Ci mettemmo gli sci in spalla e sentendoci eroi che galoppano nel tramonto andammo verso casa.

Ehi un attimo…c’è ancora un epilogo.

Quando suonammo alla porta, quel cretino di Davide, ci accolse con epiteti vari. Non si era accorto di nulla e pensava fossimo a spassarcela da qualche parte. Poco dopo arrivarono Elena, Marta e Silvia che di buon grado ascoltarono venti volte la descrizione della nostra piccola impresa.

Elena volle andare con me a bere qualche cosa e io non riuscivo a togliere gli occhi dal suo visino…e da tutto il resto. Naturalmente non ci combinai nulla, ma nel mio delirio adolescenziale decisi che avrei fatto di tutto per conquistarla.

A Milano iniziammo a uscire e dopo qualche mese coronai il sogno. Restammo uniti per ben otto anni, andando anche a vivere assieme. Poi finì… ma questa è un’altra storia.

 

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