La prova di sopravvivenza
Le sciate da Alpino e la truna nella neve sul Col San Carlo
(adattamento per Sciatori d’Epoca)
di Luigi Neirotti
Ri-poso. Il caporale istruttore ordina qualche minuto di pausa. Si può rifiatare. Siamo impegnati nell’addestramento formale da parecchie ore. Siamo nel cortile della caserma Cesare Battisti di Aosta.
L’addestramento è pesante, i comandi si susseguono incessanti: at-tenti; ri-poso; at-tenti, avanti march! Si marcia al passo, tutti insieme, in modo cadenzato.
E’ pomeriggio ed il sole comincia a nascondersi dietro le montagne della Vallée, mentre l’aria rimane insolitamente tiepida: il mese di ottobre ci introduce dolcemente verso la stagione più rigida ancora da venire ed in realtà molto più vicina di quanto sembri a noi giovani reclute.
È il 1983, ho venticinque anni, dopo il liceo ho frequentato Giurisprudenza e mi sto per laureare. Da pochi giorni ho preso parte ad un corso per allievi ufficiali di complemento dell’Esercito Italiano. Sono finito ad Aosta, alla Scuola Militare Alpina, una delle più dure d’Europa. In verità sono molto orgoglioso e felice di questa opportunità che mi farà diventare – se riesco a finire il corso – ufficiale di complemento degli Alpini.
Pur essendo sempre vissuto in città, sono molto appassionato di montagna dove, sin dalla più tenera età, ho trascorso tutte le mie vacanze, grazie alla grande passione di mio padre per le escursioni e per lo sci. Sono uno sciatore agonista, ho gareggiato saltuariamente a livello zonale, mi sto concentrando sulla fine degli studi universitari.
La breve pausa serve per far sciogliere i muscoli, anchilosati dai movimenti innaturali e soprattutto per lenire la scomodità dei pesanti scarponi in cuoio Vibram, ancora nuovi e certo non adatti a calpestare violentemente l’asfalto del cortile della caserma. In futuro si modelleranno perfettamente al nostro piede, ma è ancora presto, la strada da percorrere è ancora lunga.
Abbiamo uniformi ed attrezzatura che odorano di nuovo: siamo allievi ufficiali da qualche giorno. Ancora spaesati e un po’ timorosi, stiamo prendendo confidenza con la vita militare. Un mondo, un universo sconosciuto e insospettabile per un universitario come me, fino a pochi giorni prima abituato a passare le giornate sulle scrivanie dell’Istituto giuridico dell’Università di Torino ed il tempo libero sulle piste da sci piemontesi.
Il caporale istruttore a sorpresa comincia ad enunciare una serie di raccomandazioni sul comportamento da tenere durante la marcia e l’addestramento in alta montagna.
L’iniziativa sulle prime m’infastidisce. Tra me e me penso: “ma guarda un po’ se non ci poteva lasciare un attimo di tranquillità”. Ad un certo punto sento un’espressione che mi colpisce, parla di una “prova di sopravvivenza” che si sarebbe svolta a fine corso.
Sento parlare di campo finale, di truna nella neve, di pernottamento in alta quota, ma non colgo appieno il significato. Sono troppo nuovo dell’ambiente per comprendere, lontanamente immaginare. Ci sarà tempo e modo. Tuttavia, da questo preciso momento, quel pensiero farà spesso capolino nella mia mente.
L’addestramento prosegue settimana dopo settimana. Ogni tanto l’argomento ritorna e si discute. Chi ha parlato con un allievo anziano, chi con un istruttore. Chi ha avuto un amico o un parente che ha già frequentato la Scuola Militare Alpina. A poco a poco i tasselli del mosaico si completano ed abbiamo la certezza: durante il campo finale, il corso invernale esegue la famosa prova di sopravvivenza nella “truna”. Si dorme in alta quota senza tenda, in un rifugio scavato nella neve, previa ascensione con sci da alpinismo e pelli di foca.
“Questa è tosta!” penso. “Beh, vedremo, siamo dei duri!”.
Il tempo scorre e l’inverno, tra una punizione e l’altra, poche licenze e molto addestramento, marce faticose e servizi interminabili, è ormai passato. Forse non è stato così breve e semplice, ma di questo parleremo un’altra volta.
In verità mi immaginavo alla Scuola un’attività diversa da come si è svolta. Ero arrivato ad Aosta con grande entusiasmo, pensando di sciare parecchio e fare molto alpinismo. La realtà era stata diversa. In effetti, a parte un sabato pomeriggio a Pila ed una domenica a Cervinia in libera uscita, un pario di uscite a La Thuile per servizio, l’attività sciistica era praticamente assente. Dopo i primi quattro mesi di Scuola Militare Alpina avevo lucidato gli scarponi tutti i giorni, pulito il mio fucile quasi tutti i giorni e sciolinato gli sci: … mai!
Ecco, sul finire di febbraio, superati gli esami, i nostri obblighi di studio sono ormai alle spalle. Rimane da completare l’attività di addestramento in montagna con qualche uscita in alta quota.
Arriviamo dunque all’inizio di marzo del 1984, l’epilogo ci attende. Viene concessa un ultimo permesso prima del campo finale.
La domenica 4 marzo torno a casa per un giorno. Decido di salire a Prali per salutare gli amici e raggiungo Pian dell’Alpet a 2200 metri.
Folla di sciatori, spensieratezza. Il sole ormai primaverile fa brillare la neve tutt’intorno. Belle ragazze prendono il sole sulle sedie a sdraio nel terrazzo antistante il bar-tavola calda “La Capannina”, dove io sono decisamente di casa.
Saluto amici e conoscenti, ma sono un po’ distante con la mente: il mio sguardo scruta la montagna in cerca dell’ispirazione giusta. Sono lì in Alta Val Germanasca, vedo le montagne amiche, vedo il Bric Boucie, la Grande Anguille, il Gran Queyron; il mio sguardo spazia rapidamente dall’una all’altra cima che conosco sin da bambino; sotto di me la Pista Verde (che in realtà è una “rossa”) mi invita ad una discesa spericolata, ma il mio spirito è già proiettato all’indomani, alle montagne della Val d’Aosta.
La sera passo a casa a Torino, saluto mia madre. “Ciao ma’, ci vediamo tra venti giorni.
Parto per il campo finale, sono a La Thuile e poi chissà”.
L’autostrada verso Aosta scorre veloce, ma non ho avuto modo di conoscerla a fondo, l’ho percorsa così poche volte.
Rientro in caserma verso le dieci di sera. C’è fermento, c’è l’aria della grande vigilia, l’atmosfera è elettrica: tutti sono indaffarati negli ultimi preparativi.
Appronto il mio zaino con l’attrezzatura per il campo finale e il corso sci. Preparo anche lo zainetto tattico con generi di conforto e materiale sussidiario vario.
Passando in magazzino, il venerdì precedente mi sono fatto assegnare un paio di scarponi da sci alpinismo: dei San Marco con gambaletto interno in plastica e scafo esterno, sempre in plastica, con ganci di regolazione. Moderni scarponi che combinano buona conduzione degli sci in discesa e possibilità di agevole movimento in salita, per marciare con le pelli di foca. Dovrebbero garantirmi prestazioni migliori degli scarponi Vibram in cuoio con lacci tradizionali, che ho utilizzato per tutto il corso. C’è solo un piccolo problema: l’unico numero disponibile è il 39. Io ho il 42: per evitare di sciare con scarponi in cuoio … cercherò di adattarmi.
Lunedì 5 marzo 1984 la sveglia suona alle 3.30. Ritiro armi, rapida colazione e poi adunata in cortile in formazione per attendere i camion militari che ci portano da Aosta alla Caserma Monte Bianco in quel di La Thuile.
I camion tardano. Parte il primo gruppo. Resto con gli altri in attesa. Parte il secondo gruppo. Siamo sempre in attesa di completare il trasferimento. Albeggia. Attendiamo. Chissà dove sono finiti i camion? Sono ormai le nove e trenta quando finalmente arriva il nostro turno. Partiamo.
“Ciao Caserma Cesare Battisti, ciao casa”. Vediamo Aosta che si allontana: “torneremo che sarà primavera”.
Dopo interminabili curve e tornanti ecco La Thuile, tutta coperta di neve. Ripiombiamo nel bianco inverno che avevamo lasciato da un paio di settimane.
Iniziano le attività del campo finale. Molti di noi sono provetti sciatori. Altri un po’ meno. Alcuni non hanno quasi mai sciato. L’ordine di servizio è perentorio: “in una settimana tutti devono saper sciare, il Col San Carlo ci attende”.
Ovviamente non ci sono impianti di risalita per gli allievi ufficiali degli Alpini. Quindi il Col San Carlo ci attende sia in salita da La Thuile, sia in discesa fino a Morgex.
Già, il campo finale con la prova di sopravvivenza. Ci siamo. E’ arrivata la prova conclusiva.
Trascorriamo la prima settimana nell’addestramento al combattimento in alta montagna. Proviamo anche l’attacco con gli sci. Che divertimento scendere a rotta di collo sparando (a salve, naturalmente) con il fucile mitragliatore mentre simuliamo la presa di alcune malghe in alta montagna!
La seconda settimana ci dedichiamo al corso sci. Il bel sole di marzo scalda le giornate ed i nostri cuori. Passiamo le giornate sulle piste da sci e siamo tutti belli abbronzati. Il tempo passa velocemente e ci divertiamo pure. Finalmente ho modo di mettere a frutto il mio brevetto di istruttore militare di sci. Un compagno di corso che non ha mai messo gli sci ai piedi impara rapidamente lo spazzaneve ed in breve tempo è in grado di affrontare qualsiasi pendenza. Mi prende in disparte, mi sorride e mi abbraccia contento dalla gioia: che emozione e che soddisfazione, per me!
Il gran giorno si avvicina, il giorno del Col San Carlo. A questo punto non ci sono più scuse, dobbiamo superare anche questa prova.
Mattino presto di martedì 13 marzo 1984. Gli allievi ufficiali sono schierati nel cortile della Caserma Monte Bianco di La Thuile, destinazione Col San Carlo.
Nessuno parla, tutti attendono un cenno del “Capo”.
Fissiamo le pelli di foca, serriamo gli scarponi, allacciamo gli sci e partiamo, a passo lento. Il capitano Graziano è in testa alla fila, seguito dal sottotenente Aimone vicecomandante di compagnia; dietro di loro, i quattro plotoni di allievi ufficiali che compongono il 113° corso.
Io mi trovo in coda, inserito nella squadra soccorso con gli altri istruttori militari sci: Roberto (Caporin), Alessio (Zucco) e Sante (Pierelli). Siamo tutti sciatori esperti, classificati FISI, ex agonisti. Sante è anche maestro di sci, Alessio, che ha solo 18 anni, lo diventerà a breve.
Con mia sorpresa trovo che la salita non sembra improba se non fosse per le difficoltà di movimento e per il carico trasportato. Sulle spalle zaino da montagna con tutta l’attrezzatura e vestiario per l’intero campo finale. Sul davanti, zainetto tattico da combattimento con elmetto, borraccia, gavetta, badile pieghevole e materiale di soccorso, fucile automatico leggero (“FAL”). Noi della squadra soccorso abbiamo anche dei carichi speciali, tra cui alcune radio RV3 e la barella.
Durante il corso sci avevo avuto la possibilità di usare i miei fidati ATOMIC ARC 207, con cui avevo gareggiato l’anno precedente nelle gare zonali AOC.
Oggi invece ho ai piedi gli sci di casermaggio, nemmeno uguali tra loro: uno è un Persenico, l’altro non lo so, è irriconoscibile tanta è l’usura. Evidentemente sono il risultato dell’accoppiamento di qualche rimanenza. Sono sci di frassino, lamine a segmento avvitate, soletta verniciata, decisamente anti-scorrimento, attacchi Silvretta a ganascia, rigorosamente “non di sicurezza”, con leva frontale per la tensione del cavo che blocca il tallone.
La salita mette a dura prova l’attrezzatura obsoleta. Le pelli sono di foca naturale e molto stagionate. I lacci di cuoio che le fissano agli sci sono rinsecchiti e si spezzano con estrema facilità.
Durante l’ascesa vedo un compagno che in un tratto difficile angola improvvisamente gli sci e trancia di netto tutti i lacci delle pelli, che si sganciano repentinamente, lasciando liberi gli sci. Parte pericolosamente all’indietro. Allertati da una provvidenziale imprecazione, ci gettiamo a riacchiapparlo.
Saliamo lentamente. La fatica è tanta ma le risorse che sentiamo dentro di noi sono enormi. In questi cinque mesi abbiamo imparato che i nostri limiti sono molto al di là di quanto immaginavamo.
Mi stupisco di me stesso per come procedo nella salita.
Sono circa le due del pomeriggio quando finalmente mi libero del carico e tiro un sospiro di sollievo. Siamo in cima al Col San Carlo. Che meraviglia! Mi sembra di volare.
Ci accampiamo in ordine sparso. Dal sacchetto viveri tiro fuori un panino e cerco di placare un po’ la fame. Lo spettacolo è maestoso. Un sole splendido illumina le montagne. C’è silenzio intorno a noi. Il gruppo di giovani allievi ufficiali sta per affrontare la “prova di sopravvivenza”; intanto ha superato la salita al Col San Carlo.
Il capitano Graziano ordina la predisposizione delle trune, vale a dire delle buche nella neve, attrezzate al fine di consentire il nostro pernottamento.
Cominciamo a scavare e realizziamo un bell’incavo: la neve fortunatamente è resa morbida dal caldo primaverile. Ci procuriamo un po’ di rami di pino da stendere sul fondo per coibentare in qualche modo il basamento. Gonfiamo i materassini e distendiamo sopra i sacchi a pelo: ecco il nostro giaciglio.
Ricaviamo una nicchia laterale dove posizioniamo una candela fissata su un coperchio di gavetta: ecco il nostro rudimentale sistema di riscaldamento.
Fissiamo sci e bastoni ortogonali tra loro e realizziamo il telaio, adatto a sostenere i teli tenda che ricopriamo di neve. Abbiamo un tetto per la notte.
La costruzione della truna di neve ci ha impegnati allegramente per tutto il pomeriggio, ma adesso la fatica della giornata comincia a farsi sentire. E domani c’è la discesa verso Morgex.
Il capitano Graziano ordina di ritirarsi nelle trune quando il sole comincia a scendere lentamente e la temperatura invece precipita rapidamente sotto lo zero. Entriamo nella truna e ci tiriamo dietro gli zaini, che costituiscono la chiusura verso l’esterno. Ci sistemiamo in qualche modo, insieme al fido fucile che ovviamente non può essere abbandonato.
Una volta distesi, alzando lo sguardo, sembra di essere in un loculo. La larghezza della truna è appena sufficiente a farci stare gomito a gomito. Le pareti sono lucide e umide e le chiazze mimetizzate del telo-tenda che incombe su di noi dal soffitto che abbiamo realizzato hanno un aspetto sinistro.
Parliamo un po’, qualche battuta, una riflessione sulla giornata. Il pensiero si rivolge al giorno successivo. La preoccupazione della discesa, l’eccessivo carico, la neve che probabilmente sarà marcia, i tanti giorni che ancora mancano alla fine del corso, la vita futura che ci attende, tutta da vivere, colma di promesse ma al tempo stesso densa di incertezze giovanili.
Dal sacchetto viveri escono generi di conforto vari: un panino, una scatoletta di carne, una mela, una tavoletta di cioccolato. A poco a poco esaurisco tutte le mie scorte ed il mio sacchetto è ricolmo solo di spazzatura da riportare a valle
.
Si fa notte e accendiamo la candela. La temperatura esterna scende a meno venti. Quella interna della truna, invece, è mantenuta intorno allo zero: è sufficiente il calore dei nostri corpi e la candela. “Ingegnoso questo sistema!”.
Entro nel sacco a pelo e tuttavia decido di rimanere vestito per paura del freddo. Ho il maglione girocollo, i pantaloni di panno al ginocchio e i mutandoni di lana che noi chiamiamo scherzosamente “Versace”.
Un grosso dilemma sono gli scarponi: lasciarli fuori dalla truna vorrebbe dire trovarli ghiacciati l’indomani. Decido di lasciare fuori gli scafi esterni e di tenere ai piedi, dentro il sacco a pelo, i gambaletti interni: avrò presto una sorpresa.
La notte scende e il sonno ci abbraccia tutti quanti. La candela si consuma lentamente. In vetta al Col San Carlo, gli allievi ufficiali riposano meritatamente dopo l’ascesa.
La notte porta via le ultime paure del corso. La candela una volta consumata si spegne. L’incertezza ed il timore dei giovani ragazzi scompaiono all’esaurirsi dello stoppino. Domani sarà un altro giorno, ma anche un’altra storia. Nessuno lo sa ancora, nessuno si è accorto, la trasformazione in uomini adulti si sta compiendo. L’apprendistato è terminato. Si va incontro alla vita, col suo carico di responsabilità, che per ciascuno di noi inizieranno presto con il comando di un plotone alpino.
A metà notte mi sveglio per l’eccessivo caldo, con gli abiti madidi. Avevo tanta paura del freddo, che la prova di sopravvivenza resterà nei miei ricordi come una delle notti più confortevoli trascorse alla scuola.
Decido di fare qualcosa, per non trovarmi in difficoltà l’indomani. Lentamente, con il poco spazio a disposizione, in questa specie di loculo nella neve, mi sfilo maglione e pantaloni e li pongo tra l’imbottitura e la fodera del sacco a pelo.
Recupero la temperatura corporea e nel contempo faccio asciugare i miei abiti. Faccio una serie di mosse giuste tranne un particolare: tra breve mi sarà presentato il conto per questo mio errore, ma ancora non lo so. Mi riaddormento subito: alle 4 del mattino vengo bruscamente svegliato.
L’ufficiale di servizio passa a dare la sveglia a tutti quanti. Sposta gli zaini, infila la testa nelle trune: “Oh, sveglia, sveglia che andiamo!”.
In piedi, si smonta tutto, si riparte.
E’ ancora notte fonda, le stelle brillano nel cielo, l’aria è tersa e la temperatura esterna è -22°. L’ambiente esterno è magico, sospeso nel silenzio assoluto che avvolge la maestosità del paesaggio al cospetto del Monte Bianco, ma la situazione non ci consente di apprezzare questi momenti irripetibili.
Mi rendo subito conto che smontare nel buio della notte ciò che è stato attrezzato alla luce del giorno è operazione per nulla facile.
In qualche modo riesco a recuperare tutto il materiale e sono zaino in spalla, zainetto da combattimento e fucile sul davanti, sci ai piedi e bastoni da sci nelle mani. Tutto bene, si direbbe. Vedo alcuni dei miei compagni di corso che mi fanno un cenno di conferma “ci siamo!”.
E’ passata circa un’ora da quando sono uscito dalla truna. Ho infilato i gambaletti dei San Marco, tenuti calzati durante la notte, negli scafi esterni che avevo relegato all’esterno della truna per questioni di spazio.
Il freddo trasmesso dallo scafo degli scarponi, ghiacciati, sta rapidamente abbassando la temperatura delle mie estremità inferiori. Solo a questo punto capisco che aver tenuto i gambaletti ai piedi è stato un errore: l’umidità accumulata nella notte, trattenuta inesorabilmente dalla vile plastica, si sta rapidamente congelando. In breve tempo le mie estremità risultano anestetizzate.
Cerco di reagire, ma non è facile con il carico che ho sulle spalle. Non mi posso muovere, devo attendere l’ordine di partenza. Sento i miei piedi che scompaiono. Stringo i denti, devo farcela, devo farcela: “Forza, forza”.
Non sono il solo ad avere problemi nell’impatto tra gelo e l’umidità accumulata durante la notte.
Partiamo finalmente dal Col San Carlo, la colonna si mette in moto, la discesa sta per cominciare.
Il programma di marcia prevede di scendere dal colle S. Carlo fino a Morgex con gli sci, per essere poi trasportati con i camion militari verso Sarre; quindi una marcia a pieno carico fino a Ville sur Sarre, ove restare per qualche giorno, facendo addestramento nei dintorni ed accampandoci in loco.
Confidando sulla possibilità di sciare in discesa penso di provare meno fatica rispetto all’ascensione.
Ma le sorprese per noi giovani allievi ufficiali non sono ancora finite ed anzi proprio in quest’occasione impariamo – a nostre spese – che la discesa presenta di solito maggiori difficoltà rispetto alla salita, proprio come nella vita ordinaria il passaggio dall’addestramento alla pratica – nonostante le ingenue aspettative – registra sempre un netto inasprirsi dei problemi e delle difficoltà da affrontare.
E’ primavera ormai, il sole riscalda intensamente il versante alpino e la neve tende a sciogliersi con il progredire delle ore.
Restare in piedi sugli sci su un terreno sconnesso e con neve non battuta, appesantiti da un carico di trenta chili oltre agli eventuali carichi speciali costituiti da radio, barelle, mitragliatori, non è affatto semplice.
Come già per la salita, anche in quest’occasione faccio parte della squadra di soccorso che chiude la colonna.
Il tempo sarebbe anche bello, il sole invitante, ma non si riesce proprio a sciare: neve profonda e molle, oppure scarsa, a seconda dell’esposizione del versante, rendono le operazioni davvero difficili. Ad un certo punto imbocchiamo una specie di strada con grossi curvoni e tornanti che accentuano le difficoltà. Lo zaino, veramente pesante, ci sbilancia paurosamente e per curvare occorre mettersi a spazzaneve, curando di avere le gambe molto larghe. Diverse volte vedo le punte dei miei sci che partono verso l’alto e solo a fatica riesco a governarli. Superata la massima pendenza, il carico imprime un’accelerazione fortissima, che non è facile controllare.
Ogni due minuti uno di noi cade per terra. Subito i compagni accorrono e lo aiutano a rimettersi in piedi. Rapidamente scopriamo che il sistema migliore è prendere il malcapitato per lo zaino, sui due fianchi, e tirarlo su di forza. Da solo, nessuno riuscirebbe a rimettersi in piedi.
Dopo qualche ora di pena la colonna è molto sfilacciata e noi della squadra di soccorso rimaniamo distanziati.
La fatica aumenta, ma al tempo stesso cresce in me un vago senso di soddisfazione per la sensazione di avercela quasi fatta: la fine del corso si avvicina in modo inesorabile e mette le ali ai piedi.
A metà discesa vedo un giovane allievo che parte improvvisamente ostaggio dei propri sci, supera in accelerazione i compagni ostentando spavalderia e venti metri più avanti si capotta, rimanendo con la faccia nella neve. Un secondo allievo, che già calza le racchette da neve a rischio di severa punizione, si proietta in avanti per raggiungerlo ed aiutarlo a rialzarsi, togliendogli prima lo zaino.
Arriviamo ad un tornante, dove le difficoltà sono maggiori. Un allievo, sconsolato, ci dice che a fronte dei piedi che cercano di seguire la curva, gli sci vanno inesorabilmente dritti. Niente da fare, è una faticaccia terribile.
Siamo ormai giunti a qualche tornante da Morgex e la discesa prosegue su un tratto di strada ormai senza neve. Procediamo con gli sci correttamente infilati nei tasconi dello zaino da montagna e il passo “pesante” sull’asfalto.
Gli ultimi tratti di discesa sono veramente difficili. Le gambe intorpidite dalla fatica, le caviglie bloccate dagli scarponi ed il terreno duro si ripercuotono duramente sui nostri muscoli e sul nostro spirito, ma ormai siamo in vista di Morgex e già si vedono i camion militari che ci aspettano.
Ritrovo un compagno che arranca faticosamente: anche lui calza i San Marco rigidi come i miei. Siamo subito concordi nel ritenere che alla fine i Vibram si dimostrano scarponi migliori per il tratto di marcia e forse sarebbero stati una scelta migliore nel loro complesso. Specialmente tenendo conto che la marcia sul terreno liberato dalla neve, con scarponi di tre numeri più piccoli, è stata una tortura!
Siamo finalmente sullo spiazzo dove sono parcheggiati gli autocarri che ci attendono. Carico sci e scarponi sul camion da trasporto che li riporta ad Aosta: lo sci è finito per ora.
Salgo rapidamente a bordo del camion da trasporto e tiro un sospiro di sollievo. Levo il mio sguardo indietro ed ammiro il Col San Carlo sopra di noi.
I commenti sono scarni: la fatica è stata tanta e preferiamo risparmiare il fiato.
Mentre il camion ci porta a destinazione, rifletto. Ebbene, la prova di sopravvivenza è stata superata ed in fin dei conti è stato molto più facile del previsto.
In effetti qualunque prova, una volta superata, pare facile, proprio perché è stata superata. E allora mi domando: in cosa consisteva veramente questa prova?
Penso allora che il difficile sia mettersi in gioco, affrontare una nuova e maggiore difficoltà. Sopravvivere a sé stessi, alla propria inerzia, alla tentazione di adagiarsi, di accontentarsi. Ecco, la prova di sopravvivenza consiste nell’avere il coraggio di non fermarsi, di affrontare la prova successiva, che è sempre più difficile ed impegnativa, nonostante la speranza sia sempre quella di avere vita facile dopo aver scollinato. Purtroppo non è mai così, anzi è sempre il contrario.
Diavolo di una Scuola Militare Alpina, mi hai ingannato: mi hai fatto credere chissà cosa, e poi mi regali uno dei più bei ricordi della mia vita ed una delle più grandi soddisfazioni provate in montagna. Mi hai insegnato a non temere le prove a cui siamo sottoposti ed a cercare di vincere sempre l’innata riluttanza ad osare qualcosa di nuovo, di mai provato. Mi hai fatto capire che quando credi di aver superato un ostacolo, il difficile deve ancora venire.
La colonna dei camion parte in direzione di Ville Sur Sarre, dove ci tratterremo per circa una settimana, accampati in alcune malghe di fortuna, poco distanti dal ristorante Vaudan che diventerà la nostra base operativa nel poco tempo libero.
E’ ormai notte inoltrata e sono nuovamente nel sacco a pelo. Siamo tutti stanchi ed il sonno non fatica ad arrivare, nonostante la sistemazione impervia. Un leggero vento primaverile porta la temperatura sottozero e ci accarezza dolcemente, visto che non abbiamo finestre nelle malghe in cui siamo accampati. Tra pochi giorni il corso sarà finito e tutto questo rimarrà un bellissimo ricordo.